Così vicino, così lontano…

Siamo tornati. E questo è l’ultimo post. Post postumo scritto in Italia. L’esistenza canadese è stata stroncata come un colpo di mannaia sul filo teso dell’aquilone. L’aquilone infatti è rimasto a Toronto nelle tenere mani (doloranti) della zia Paola. Al dolce vento che animava la città abbiamo affidato i nostri ultimi sguardi mentre ancora una volta venivamo dondolati sulla limousine/barca che ci portava all’aereoporto, in silenzio. Abbiamo finito in bellezza non cè’ dubbio con l’autunno che regalava dei colori così intensi da non avere nome. Il rientro è stato faticoso ed è tutt’ora una fatica. L’erede è contento ma va a letto alle 2 e il sottoscritto ha attacchi di sonno negli orari più strani. Siamo così impegnati a recuperare i pezzi della vecchia vita che ancora non abbiamo avuto il tempo di ricordare e capire che cosa è stata quella “nuova” al di là dell’oceano. Sembra tutto così lontano eppure era ieri che ogni mattina si prendeva la bici e il pargolo, con il suo casco sulle 23, aspettava la discesa per lanciare il suo barbarico urlo… e ti chiedeva di accompagnarlo… DOVEVI urlare insieme a lui! e cominciava la giornata! Sembra ieri che mangiavamo la pizza da Terroni con il gruppo di Algonquin Park, sembra ieri che la zia Paola bussava alla casa del ciliegio e si improvvisava una cena, sembra ieri che andavamo a comprare Repubblica in edizione ridotta dal cinese all’angolo, sembra ieri che scavavamo buche e alzavamo montagne nel nostro parco preferito, che ce ne sono molti come lui, ma quello era il nostro. Sembra ieri che giocavamo a “nascondino” (hide&seek) con C.J. e sua mamma Marzia. Sembra ieri che il quasitreenne e il suo amico Julian distruggevano “Sushi On Bloor”, luogo di culto per VOI amanti della cucina giappo. Sembra ieri che Melanie spariva nella notte in sella alla mia bici e con la nostra caffettiera. Sembra ieri che una donna tanto bella quanto strippata, ci ha mollato in 15 secondi 40 dollari per una bici che forse non li valeva. Sembra ieri che la zia Paola ci donava il primo e ultimo pranzo completamente “crudista”: una meravigliosa “lasagna” di verdure (vedi foto)…
Sono gli scherzi che combina il viaggio sempre troppo veloce via aereo, per noi malinconici meditabondi, che ci piace guardare dal finestrino il paesaggio che passa, l’aereo è una violenza. Prossima volta prendiamo la nave. Rispetto all’andata abbiamo stipato una valigia in più, dove abbiamo gettato alla rinfusa tutte le stronzate accumulate in 6 mesi. Un seggiolino da bici, un coltello da macellaio, una mannaia (quella per il filo dell’aquilone), un cappello in canapa misura 60, regalini e pensierini inutili, sciroppo d’acero come se piovesse, libri noiosi e/o incomprensibili, libri per mocciosi, scarpe nuove e scarpe vecchie, guantoni da sacco in pelle, un portapacchi da bici e set completo luci + trombetta, un portauovo, vari tupperware (in italiano non mi viene la parola), una targa d’auto dell’Ontario, calamite per il frigo, giravite rubati. Tante cose che si vanno ad aggiungere a quelle ritrovate qui. Anche questo autunno comincia la mia guerra contro gli oggetti. Presto, come tutti gli anni, andrò in giro per casa con un sacco nero, buttando tutte le stronzate, abbandonate là, inutili, brutte e ingombranti. Metà dei giochi del figlio finiranno in cantina, accanto ai 2/3 della biblioteca di mamma e papà (libri inutili per lo più).
Ed eccoci qua, a godere di questo cielo milanese, a respirare questa aria velenosa, ad affrontare tutto come se niente fosse successo. E a chi chiede “Beh come è andata?” … come è andata?! come è andato cosa?… Ah il Canada… è andata benissimo, ma è andata. Almeno così sembra.
Questo blog si chiude qua. La famiglia però ha deciso di continuare a torturare i vostri occhi e la vostra grammatica con un altro posto dove andare a curiosare cosa succede tra i Rizzos.
Andate qua nei prossimi lustri
http://therizzosinpatria.wordpress.com/
e se avremo tempo e voglia magari troverete qualche bella lettura da vater e qualche foto da invidiarci.
Suerte y Besos

The Rizzos
p.s. di seguito un pò di foto…
e un video a cura della zia Paola (GRAZIEEEE!) Bye bye Terroni

thanksgiving day


Nelle letture di un adolescente medio-sfigato, capita di solito il periodo “beat”. E giù con Kerouac, Ginsberg e compagni, ma il più tremendo di tutti era senz’altro William S. Burroughs. Lui ce l’aveva tutte: tossico, bisessuale, uxoricida, scrittore anarcoide e allucinato. Un libro per tutti: “Il pasto nudo”, da cui il grande Cronenberg ha tratto anche un film che ho visto due volte e tutte e due insieme al mio amico Musico. Perchè vi parlo di Burroughs? Perchè oggi è il Giorno del Ringraziamento!
Credo che nessun’altra generazione di scrittori abbia spalmato tanta merda sull’ American Way of Life quanto quella Beat. Hanno sgretolato ogni ipocrisia e morale, hanno fatto a pezzi molte convenzioni rassicuranti insieme a molta sintassi. Un pò figli dei fiori un pò figli di puttana, questi artisti della prosa e della poesia se la suonavano e se la cantavano un pò tra di loro… ma Burroughs no! Più vecchio di tutti e più pazzo di tutti, non avrebbe mai messo fiori nei cannoni, ma palle di ghisa pronte a esplodere… i suoi versi sono pure allucinazioni… vero “pus underground” per i palati più forti… Il grande vecchio mi è tornato in mente oggi che i canadesi si preparano a festeggiare il Thanksgiving Day, copiato pari pari dagli States che però lo festeggiano a Novembre. Si festeggiava un tempo la fine del raccolto e si rendeva grazie al Divino per l’abbondanza delle messi, oggi è rimasta solo la tradizione secolare e giù a tracannare vino e a masticar tacchino. Per noi Rizzos è stato un giorno come tanti… senza pretese.
Ecco qui sotto invece la preghiera del nostro scrittore pazzo dedicata al Thanksgiving Day (quello Usa però) (mi dispiace ma non la traduco!) (giù c’è il video con regia di Gus Van Sant) (baci a tutti):

“Thanks for the wild turkey and the passenger pigeons, destined to be shit out through wholesome American guts.
Thanks for a continent to despoil and poison.
Thanks for Indians to provide a modicum of challenge and danger.
Thanks for vast herds of bison to kill and skin leaving the carcasses to rot.
Thanks for bounties on wolves and coyotes.
Thanks for the American dream,
To vulgarize and to falsify until the bare lies shine through.
Thanks for the KKK.
For nigger-killin’ lawmen, feelin’ their notches.
For decent church-goin’ women, with their mean, pinched, bitter, evil faces.
Thanks for “Kill a Queer for Christ” stickers.
Thanks for laboratory AIDS.
Thanks for Prohibition and the war against drugs.
Thanks for a country where nobody’s allowed to mind the own business.
Thanks for a nation of finks.
Yes, thanks for all the memories– all right let’s see your arms!
You always were a headache and you always were a bore.
Thanks for the last and greatest betrayal of the last and greatest of human dreams.”

Andrew’s Scenic Acres


Virata ad ovest, direzione campagna. Poteva essere una domenica come un’altra, una domenica di quelle che nascono incerte e possono continuare insipide. Ma non lo è stato. Dinanzi a noi l’Ontario ‘(y)ours to discover’ (nostro da scoprire) e dietro il pargolo, immobilizzato nel suo seggiolino dalla stretta di un doppio giro di cinture che tanto tranquillizza la ‘zia’ canadese!
Superstrade, bivi, svincoli e auto in coda da evitare. Anche qui, come in patria, il giorno festivo è sinonimo di fuga dall’urbano. ‘Chinchin’ pronuncia il piccolo, nella sua lingua che cerca interpreti. Mi commuove sapere che ora un’auto ed un seggiolino abbiano per lui il sapore dell’avventura e che le mille avventure non siano valse come la sola, l’unica e la più importante, quella incrostata di selvatichezza e scomodità, eppure così intensamente vissuta ed ora tanto agognata: Alconquin Park!
Distesa orizzontale dell’occhio che guarda lontano. Campi. Distese di campi arati e casolari in legno. Ogni tanto un grido, una frenata e pronti a spalancare la portiera per correre a fotografare… quello scorcio, quel minuto, quell’incanto! Mangiamo uva, mentre a tutto volume rimbomba nell’abitacolo walzer e polKa di una band del basso veneto – CD originale gelosamente custodito dal padre della Zia. Mi assale un vortice di pensieri ed ho voglia di urlare, ma invece ballo e danzo come se mi sentissi stretta in quel ‘caschè’ tanto cantato da Guccini. C’è l’odore di una balera anni ’60, il rossore timido degli alberi in autunno ed un inno alle mie amiche e alla bellezza tutta femminile.
La meta è raggiunta. Questa è una fattoria della pianura Ontario. Abbiamo di fronte i girasoli e a lato un trattore che ci porta negli orti per masticare sapori di terra.
Accanto a me una donna, battezzata profanamente Zia, ha le tette piene di paglia. Salta, ride, gioca e si nasconde tra le balle di fieno. La guardo e la scopro bimba ed amica.
Il piccolo è un sorriso pieno, è una capriola di energie che si affaccia su questa terra d’oltreoceano. Eppure oggi a me il cielo pare quello delle mie origini. È un manto di azzurro intenso costellato da nuvole che a vederle sembra quasi di poterle toccare.
Le mani sono rosso sangue e il pargolo ha scoperto il gusto dei lamponi. Quelli ancora caldi di pianta, gonfi e vellutati, che schizzano in bocca appena incontrano le labbra. Non distoglie lo sguardo dagli arbusti ed è ben concentrato per raccogliere solo quelli rossi rossi. Tiene stretto il cestino: lui ama i suoi lamponi e li guarda, come se sapesse contarli.
Pian piano il pomeriggio si avvicina alla sera. Vicino ai fiori, l’arancione delle zucche e la Zia fa un regalo alla famiglia. Scegliere una zucca è un divertimento. Ognuna è personaggio, una faccia, una presenza. La nostra è là, tra le tante, ad aspettarci. Il piccolo prova a sollevarla, ma è… graaandeee e non ce la fa.
Il resto è un ritorno e nel portapacchi una zucca da portare a papà.

… la notte è giovane


Anche questo week end ha riservato qualche bella sorpresa per la famiglia. Sabato 29 settembre… “mi son svegliato e… io non pensavo a teeeeee”. Qualcuno mi deve spiegare perchè ho la testa piena di canzoni degli anni 60. boh. Dicevo, sabato 29 settembre c’è stata la “notte bianca” qui a toronto, che tanto per farsi “fighi” l’hanno chiamata “Nuit Blanche”, perchè tutte le cose affascinanti, romantiche e un pò notturne è bene che abbiano un tono un pò straniero, un “coté extraordinaire”… certo “white night” non si può sentire, neanche a Natale. Offre SCOTIABANK. Qui in canada gli sponsor non hanno tanti pudori come da noi, sono ben piazzati in prima fila a caratteri cubitali su tutti i manifesti, sempre in cima all’intestazione, mica a piè di pagina come in Europa, dove noi poveri ingenui ancora proviamo un certo imbarazzo a mischiare il denaro con l’arte… poveri fessi. Tutti gli “eventi” si fanno con i soldi e questo fatto, qui oltreoceano, lo sottolineano senza tante cerimonie. Comunque, un bel pezzo della città (non solo in centro per intenderci) era rivitalizzato dalla presenza di opere grandi e piccole, happening, installazioni, proiezioni, sperimentazioni, mostre. Anche un sacco di stronzate, tipo la pittrice che mentre dipinge viene legata, spalmata di gelato e leccata o il campionato di “high five”. Ricordate l’insopportabile Jovanotti che nel lontano 1988 (fonte wikipedia) ebbe il merito di portare il “dammi un cinque” (gimme five) tra le mandrie al pascolo di tanti adolescenti idioti lobotomizzati dalla protocultura televisiva dell’epoca? ecco, in un piccolo giardino di Toronto si svolgeva il campionato di “dammi un cinque”. Mi sembra leggittimo, dato che – questi americani – ne sono gli inventori… Non so… certe volte percepisco quasi una sorta di complesso di inferiorità dei canadesi nei confronti dei loro vicini statunitensi, per cui pare che, ad un certo punto, anche qui al nord, gli prende la foga per le puttanate all’americana maniera… vabbè… continuando a camminare per le strade della città, ci si imbatte in una larga piazza, forse l’unica piazza degna di tale nome a Toronto, Phillip Nathan Square, per l’occasione immersa in un’oscurità molto piacevole e inconsueta. Quanto è bello quando il buio avvolge le città, sempre in preda a manie illuministiche… il buio era necessario al gioco di proiezioni che si svolgeva tutto attorno. 6 dischi giganteschi – che neanche i radiotelescopi nel deserto del Nuovo Messico – erano illuminati da immagini amorfe e coloratissime… “Il museo della fine del mondo” dice l’insegna. Nei parcheggi sotterranei della piazza, altra arte di questo museo solleticava la nostra voglia di stupirci e in effetti in quei parcheggi dai soffitti bassi e dalle geometrie ortogonali, c’erano tutti gli elementi per una bella apocalisse epidemiologica, tutti zombie entro i prossimi 28 giorni!!! Fumo dalla macchina del fumo, foto macro di semi e terra, luci di taglio su oggetti d’uso comune, paranoia nucleare, i luoghi del vivere (casa, scuola, ufficio) ridotti a macerie di un’umanità moribonda, vampiresca e violenta… fine della recensione.
Una cosa più di tutte ha solleticato il mio interesse, perché ha fatto saltare uno dei tanti tappi moralistici che mi porto addosso: una bella esposizione live di pratiche “BONDAGE”.
Ora, non so cosa questo centri con l’arte, probabilmente nulla. A voler fare gli inquisitori è facile giudicare e condannare, tanto più che si tratta di dare spettacolo attraverso pratiche masochistiche. Però avreste dovuto vedere le facce di quella gente, della vittima e del carnefice, della legata e della legatrice (quasi tutte donne). Quelle facce e quei corpi non erano là (solo) per dare spettacolo, erano corpi seminudi, martoriati e appesi come quarti di bue, sofferenza vera, piaghe vere sulla carne, seni e cosce straziati da funi di canapa. Poi vabbè musica techno a palla, videocamere e “spettatori” che si aggiravano come in una sala delle torture postmedievale. In effetti il voyeurismo di noi avventori curiosi era più che complice di quelle afflizioni consensuali… e tutto sommato non posso non credere che parecchi stessero godendo con gli occhi… in quell’aria torrida da macello sovraccarica di endorfine endogene e di altra roba esogena e illegale. Insomma la città era piena di donnine seminude che si spacciavano per opere d’arte estemporanee, di giochini divertenti (tipo un marciapiede ricoperto di plastica con le bolle, quindi ad ogni passo dei pedoni era tutto uno scoppiettio), di finti operai che costruivano veri muri a simbolo di non so che, di gente che raccontava barzellette sul tram, e devo dire che – al dilà del gusto – tutto stò baraccone almeno scongiurava il solito tritacarne consumistico, disattento e frettoloso della metropoli.

P.s. naturalmente – avevate dubbi? – gli occhi dell’erede sono stati tenuti lontani da queste perturbazioni del mondo matto degli adulti. Anche lui se l’è spassata però, in giro fino a notte fonda a vedere cose strane dentro una città senza macchine e con un sacco, ma un sacco di gente per le strade (tanti “giovani”, anzi diciamo pure “ragazzini”), certo è stato difficile ad un certo punto far capire al pargolo che quel bellissimo triciclo illuminato perfettamente nei suoi colori scintillanti, abbandonato in un angolo tutto solo, non si poteva toccare… era un’opera d’arte!
Ringraziamo Yvonne J. Boothroyd per le foto qui sotto!

Prossima puntata: Andrew’s Scenic Acres

La giornata perfetta

Una volta qualcuno mi fece leggere un brano di Pasolini in un libro che era il resoconto (sopratutto fotografico) di un suo viaggio lungo le coste dello stivale. Mi è tornato in mente l’altro giorno quando io e il cucciolo ce la spassavamo in un grande parco. Il brano era questo:
“Sono felice. Era tanto che non potevo dirlo: e cos’è che mi dà questo intimo, previsto senso di gioia, di leggerezza? Niente. O quasi. Un silenzio meraviglioso è intorno a me: la camera del mio albergo in cui mi trovo da cinque minuti, dà su un grosso monte, verde verde, qualche casa modesta…”.
Solo uno stralcio trovato in rete, ma rende l’idea.
La vita, da queste parti, torna a quella che si chiama, per abitudine, “normalità”. In questa normalità riconosco di essere stato amorevolmente traghettato da mio figlio che lentamente mi ha svelato il segreto del tempo puntuale, unico e infinito. Il tempo eterno e circolare del gioco. E beati noi quando giocare significa circondarsi di alberi ancora carichi di foglie verdi riconoscibili una ad una nella luce della tarda mattina, quando giocare significa raccogliersi sotto il cielo azzurro, in una giornata di sole nè troppo calda né troppo fredda… quanto è bello giocare in una giornata perfetta senza sentire i morsi della fame e l’arsura della sete. Almeno quanto leggere il giornale immerso nella sabbia, poggiato ad una roccia e con un grappolo d’uva alla Tiberio Caio Pompeo. E così, tra un acino e l’altro, il quasi-treenne distrugge montagne e castelli immensi costruiti da papà che invece legge le ultime corbellerie combinate da quei simpaticoni dei politici italiani… ormai sempre più convinto che l’unica soluzione vera sia quella di seguire il consigli di Crozza: imbracciare i forconi (e qualche fucile). Ma a noi canadesi dei truogoli dei governanti italiani poco ce ne cale. Facciamo finta che tra quindici giorni non ci toccherà mica tornare in quello strano, buffo, tragicomico paese. Per intanto ci godiamo gli ultimi brandelli di questo sole, di questo mare (leggi lago), di questo vento. Si diceva che abbiamo infilato come guanti le sacrosante routines quotidiane, siamo tornati a stupirci di cose banali, tipo che il tonno Riomare costa più del tonno Callipo e che L’Espresso (il settimanale) costa 13 dollari… c’è da stupirsi – per esempio – che in tutta la città che abbiamo conosciuto non c’è neanche l’ombra di una macelleria equina – dannati inglesi!! Devo fare attenzione però a nominare carni di animali sventrati e sgozzati tra indicibili sofferenze per il solo palpeggiamento edonistico delle nostre papille… dato che la mia dolce metà ha maturato in questi mesi una straordinaria coscienza vegetariana che sconfina pericolosamente in un veganesimo anarchico e ballerino. Quindi tenetevi pronti oh amici e consanguinei perché – quando come per incanto torneremo a solcare i marciapiedi luridi di Via Giacosa – per il momento due cose solamente sono certe e assodate:
1) Per decreto di madre nessun animale morto e fatto a pezzi farà bella mostra di sé sulla tavola dei Rizzos (la carne si consumerà in riunioni segrete, in cantina o a casa dei nonni)
2) Per vicissitudini di autismo progressivo il papà non ha imparato un cazzo di inglese (quindi non fate domande idiote) e il figlio blatera una lingua tutta sua, una specie di esperanto all’incontrario con un’unica parola che le significa tutte: “COCCO”.
Insomma, stiamo per tornare e speriamo di reggere il colpo, prevedo tempi duri che verranno superati con le migliori strategie piccolo-borghesi: frigorifero nuovo, materassi e lenzuola nuove e sopratutto una lavastoviglie!!! Che Odino mi fulmini se entro Natale non avrò una lavastoviglie!
Stiamo per tornare e ci teniamo aggiornati! Pare infatti che in Italia, grazie alla crisi pare, frotte di amici (pare!) sfornano e infornano figli come fossero croissant, manco fosse un virus influenzale, tra extrauterini e intrauterini ne contiamo almeno 7. Abbiamo chiesto al quasi-treenne se gli sarebbe piaciuto avere una sorellina o un fratellino e lui, alzando le sopracciglia, con un sorriso beffardo, ha detto: “COCCOOOOOOOO”!!!

CAPITOLO 2 Honey Harbour

Come vi scrivevo da qualche parte, l’ordine dell’universo e le forze galattiche si muovono con favore inedito per the Rizzos. Fortuna ha voluto che, nel lungo ponte per la festa del lavoro nordamericana (1 settembre), lo zio Scannasurgi fosse a portata di autobus dalla nostra Toronto (come è noto lo zio – al soldo dalla C.I.A. – addestra ratti al controspionaggio nei sotterranei della White House). Di nuovo la fortuna cieca ha voluto che una fanciulla dell’Ontario a caso avesse scelto, in tempi non sospetti, la nostra capitale come città d’adozione. Proprio nell’immensa Roma, lo zio e la fanciulla strinsero, anni addietro, platonica amicizia. Ora… questo triangolo fatato Roma-Toronto-Washington, voluto da una congiuntura astrale che si verifica ogni 2000 anni, ha sviluppato un baricentro che si chiama Honey Harbour. Honey Harbour è una località immersa in un arcipelago smisurato dove se non sei proprietario di un’isola di una dozzina di ettari, sei uno sfigato. Su ogni isola si erge almeno una villa in legno e vetro che per legge non può superare l’altezza degli alberi ma in estensione orizzontale chi se ne fotte: 400, 500 metri quadrati strappati alla natura che rimane dietro le immense vetrate dei soggiorni-campi da calcetto, con un arredamento rustico e alla buona certo, ma con un piano cucina di 8 metri. Siamo arrivati in questi luoghi dopo un paio d’ore d’auto, cullati dalla guida dello zio che con il naso sul parabrezza e tutte e due le mani incollate al volante, rispettava ligio tutti i limiti di velocità da vero pensionato sulla litoranea adriatica. Comprati i beni di prima necessità, 1 kilo di pasta e 24 birre, siamo stati catapultati nel mondo di acqua e barche della nostra ospite, una canadese romana dallo spiccato accento trasteverino, insomma la nostra Trasteverese. Capelli al vento e sole negli occhi cavalcavamo il nostro motoscafo, saltellando come grilli tra le onde degli altri motoscafi grandi e piccoli, uno spernacchiamento di motori lanciati sull’acqua. Finchè, superata qualche isola, attraversato qualche canale, tagliata a metà qualche boa, siamo giunti al nostro molo, che c’è ne sono tanti come lui, ma quello è il nostro.
Dopo che hai passato 4 giorni a spaccare legna per mangiare e a dormire sulla nuda terra, quando hai a disposizione una “dependance” quadrilocale con veranda affaccio baia e un molo privato con boschetto e amaca, ti viene voglia di alzare lo sguardo al cielo, convertirti velocemente e gridare “grazie Dio!”.
Altro che dio. Grazie alla nostra ospite e alla sua famiglia abbiamo passato un paio di giorni favolosi. Prigionieri in un’atmosfera da soap-opera abbiamo goduto nudi, in mutande e bikini di un mondo a parte, capace di mettere insieme la pace infinita che dona madre natura e l’ozio infinito che donano una birra fresca e una poltrona di vimini. E se proprio non sai stare fermo, puoi sempre prendere la canoa e pagaiare verso spiagge sconosciute, senza fretta però, tanto per fare qualcosa.
Un pò di sano remare o una nuotata nell’acqua dolce e pulita aprono la panza a ipercaloriche leccornie, tipo la premiata “carbonara dello zio”… e io che credevo che come la faccio io non la fa nessuno… e invece, oltre a sezionare gli ippocampi dei roditori, lo ziastro conosce il segreto della carbonara perfetta, come un samurai i segreti della sua katana. Il buon cibo, il moto moderato e l’aria sana agevolano anche il riposo della notte, se non fosse per il nostro amato zio carbonaro, il cui russare ricordava vagamente il suono di una betoniera con il singhiozzo, ma gli si deve ormai perdonare ogni cosa, sopratutto dopo che ha portato in dono un super aquilone per il mio ragazzo… scusa perfetta per far giocare il padre, moooolto più del figlio.
Il momento del congedo è stato triste. Come lasciare l’odorosa ombra degli amici pini? e quei tramonti e quella luna? Come staccarsi dalle acque immote e profumate? Come tornare alla civiltà dopo tanta profondissima quiete? Come abbandonare a se stesse quelle lunghe poltrone in veranda e le ultime 2 birre rimaste in frigo? Come sarà domani quando non potremo più dedicare le ore agli assurdi giochi di carte dell’infilatore di elettrodi nei crani dei simpatici cugini dei criceti, nonchè amico e zio acquisito Scannasurgi? E il nostro cucciolo come farà senza poter passare ore a grufolare nella fanghiglia? Come potrà sopravvivere nella città dalle mutande obbligatorie? Eppure siam tornati.
Rimane la lode alla Trasteverese e alla sua mamma che ci hanno riempito di vizi e di ozi regalandoci un altro pezzetto di Canada.

We’ve seen things you people wouldn’t believe…

Cari tutti che ci visitate (festeggiamo i 10.000 contatti!),
da queste parti il tempo scorre veloce, il vostro marmocchio preferito cresce alla velocità della luce e se ancora non mette due parole insieme, vi assicuro che in compenso corre e gioca come un assatanato. Lontani sono i tempi che videro la vetusta progenie solcare le terre canadesi. Ora the Rizzos continuano l’avventura cavalcando sicuri verso il suo traguardo in perfetta sincronia stellare: la cintura di Orione incontra Giove sul perielio di Mercurio e la triangolazione con le Pleiadi ci assicura un settembre in equilibrio “perfettamente instabile”. Le ultime settimane – infatti – sono state molto intense e tutta la famiglia ha accumulato esperienze di alta formazione sensoriale, tanto da riempire un magico cappello a cilindro di oggetti fantastici e visioni cristalline. Insomma abbiamo fatti i turisti.

CAPITOLO 1 – ALGONQUIN PARK
E’ successo che un giorno, come per incantesimo, mi sveglio una mattina dentro una tenda… sacco a pelo, materassino, ossa doloranti. Al mio fianco la mia sposa e dopo di lei il nostro ragazzo raggomitolato in un angolo, anche lui nel sacco per dormire due volte la sua lunghezza. Il nostro bozzolo era sospeso in quella strana luce d’aurora che si accende nelle tende con i primi raggi del sole, una via di mezzo tra la luce lunare e un neon sparato negli occhi. Getto uno sguardo veloce prima ai volti di affiliati e consanguinei e poi alle pareti del nostro igloo sintetico.
Anche questa notte nessun orso è venuto a farci visita.
Niente ironia gentili lettori, nella foresta dove eravamo la probabilità di incontrare un orso era piuttosto sostenuta, una probabilità piuttosto inedita per noi europei, quasi sprovvisti di plantigradi. Dunque mi svegliavo ed ero felice che la nostra tenda fosse ancora intera e nessuno squarcio a forma di artiglio avesse lacerato la nostra alcova di poliammide. Non tutti amano il campeggio, ai Rizzos invece il campeggio piace parecchio pare. Sopratutto il campeggio estremo. Il sottoscritto ama tirare fuori la testa dalla zip la mattina e scoprire di essere ancora (vivo) in mezzo al bosco, respirare profondo, dire qualche stronzata tipo:”Mi piace l’odore del napalm al mattino…” e cominciare una nuova giornata in cui tutti gli accessori superflui della vita borghese sono come per incanto eliminati. Vuoi lavarti la faccia? Non puoi, non c’è il lavandino. Vuoi svuotare le viscere leggendo un gustoso fumetto? Non puoi, non c’è una tazza nel raggio di 48 km. Vuoi mangiare una calda e nutriente colazione? Non puoi, il cibo è appeso a 5 metri da terra a 30 metri dal campo per evitare visite sgradite di lupi e altri simpatici 4 zampe. Vuoi farti un robusto caffè nero? Non puoi, noi canadesi beviamo sciacquatura di piatti marroncina. Vuoi magari ascoltare un pò di musica o le ultime notizie? Povero ingenuo… l’aggeggio più evoluto a tua disposizione è l’accendino. L’unica cosa che puoi fare quando ti svegli la mattina presto in una sterminata foresta di conifere che si affaccia su di un’immensa laguna solcata da una foschia vaporosa che lentamente si dissolve ai primi raggi di un sole brillante sulle piume di aironi e strolaghe, l’unica cosa che puoi fare quando ti svegli in un posto simile… è guardarlo. Guardarlo e ascoltarlo. Siamo nel cuore di un parco grande quanto il Friuli, niente elettricità, niente acqua corrente, è inutile cercare un posto dove prende il cellulare, il tuo cellulare da 400 euro lo puoi buttare nel cesso, ah no, il cesso non c’è. Non sentirai nessun motore, nessun aereo potrà solcare il tuo cielo, l’unico mezzo autorizzato è la canoa, l’unica strada è l’acqua. Che goduria!
Se poi a tutto questo ci aggiungi che finalmente ho una scusa perfetta per abbassare di parecchio il mio standard di igiene personale, che finalmente il pargolo ha una scusa perfetta per essere veramente selvaggio, lercio e bisunto pronto per la caccia alle rane accompagnato dal suo cane-lupo Lucy, che finalmente posso accendere ogni mattina il fuoco con tonnellate di legna che la foresta offre, cucinare i miei fagioli e mangiarli direttamente dalla padella, che finalmente posso fare un bagno che non sappia di cloro e scivolare tra le rocce lisce di una natura benigna, che finalmente l’indice della mia sposa è diventato rovente grazie a 10 milioni di foto… beh signore e signori, benvenuti in paradiso.
E se poi ci aggiungete che tutto questo è stato possibile grazie ad una persona tanto cara e deliziosa… beh allora il paradiso è pieno di hostess senza aerei. GRAZIE!

Ecco un video didattico http://youtu.be/id9p6ArDZgA

E così ogni mattina per mangiare dovevo far ginnastica e poi partire a raccatar legna, aggirandomi circospetto a non più di 50 metri dal campo, con una carica di adrenalina pronta ad esplodere e la salivazione azzerata, con le orecchie tese come un vulcaniano, pronto a correre con le ginocchia sopra la punta delle stesse, in preda al panico paranoide istillato dal fantasma di un peloso orso nero che mi solletica le terga.
Di orsi comunque neanche l’ombra. Una notte però, prima uno solo, poi tre e poi tanti ululati hanno svegliato anche il mio secondo occhio. Lupi nelle vicinanze? Tutto è durato troppo poco per essere veramente preoccupante, con la grazia di san Francesco ed un’atarassia gemellata con madre natura, mi son rigirato a ronfare fino al mattino.
3 notti e 4 giorni di questa vita hanno portato a nuova esistenza il corpo e la mente di tutta la famiglia. Finalmente a stretto contatto con anglofoni veri, siamo andati oltre il genitivo sassone e via verso l’infinito e il congiuntivo. Un gruppo cospicuo di boscaioli metropolitani ci ha accompagnato in questa avventura (e dotato di attrezzatura sopratutto), ci ha insegnato come pagaiare senza girare in tondo, ci ha viziato con stormi di pancake e spiedini di palline di zucchero (i marshmallows!). Il nostro duenne ha anche messo gli occhi su una fresca pulzella di 15 anni e adesso, quando la vede, cammina sulle punte e assume espressioni da ebete. Il vostro affezionatissimo ha anche sfoderato i suoi vecchi successi da strimpellatore di chitarra davanti a un bel fuoco di bivacco, duettando amorevolmente con la sua sposa… insomma un campeggio ‘into the wild’ con tutti quanti i crismi… ma non finisce qui cari tutti. Cosa è che ci piace di più? il contatto con le bellezze della natura selvaggia o il lusso addomesticato immerso in un paesaggio da sogno? Per sapere del secondo dovrete aspettare il prossimo capitolo. Intanto ecco le foto. Bye bye :-).

Differenza e ripetizione.


Tanto tempo fa ricordo, ed è un ricordo fresco, mia nonna… ricordo mia nonna intenta a spazzare il pavimento della cucina, subito dopo che noi maschi di tre generazioni (mio nonno, mio padre e io) avevamo lautamente consumato il pranzo preparato dalla stessa. Ricordo che mia nonna spazzava il pavimento della cucina almeno tre volte nell’arco della giornata. A metà mattina, dopo pranzo e dopo cena. Quella del pranzo era la ramazzata più importante perché precedeva il passaggio dello straccio umido, intinto nel secchio, strizzato, gettato a terra e poi strisciato sul pavimento. Un’intera sinfonia di gesti e di suoni che ti rimangono registrati addosso come un fonogramma, un incisione vinilica in fondo all’anima. Non c’è mocio vileda che tenga di fronte allo straccio della nonna. Ed io ancora oggi non riesco a lavare i pavimenti senza uno straccio che mi salvi dalla vile ipocrisia di quella chioma sfilacciata pseudoassorbente che ti promette poca sozzura tra le mani ma – diciamoci la verità – non serve a un cazzo. Non passava giorno senza che mia nonna spazzasse e lavasse il pavimento con una cura rituale forgiata dall’abitudine e da una legge non scritta cui tutti obbedivamo. E il pomeriggio, per me ragazzino, non iniziava mai veramente finché le sedie non erano ritte capovolte sopra il tavolo e la nonna non buttava l’ultima secchiata d’acqua sporca dentro al vater. Ecco che cos’è che ti forma, che ti si infila dentro come un turbine a rallentatore e che negli anni ti si spalma addosso dal di dentro e dal di fuori e in tutte le pieghe. I gesti ripetuti, le abitudini incrollabili, le ripetizioni di suoni, odori e visioni che quasi sempre rimangono invisibili ma che a ben guardare ti danno la solidità che ti inchioda alla vita più di qualsiasi altra cosa al mondo perchè hanno scolpito la tua pelle, le tue papille e tutti i tuoi recettori, quando ancora erano vispi e multiformi e non atrofizzati e pigri come in età adulta. E non mi tirate fuori la solita madeleine di proustiana memoria (che francamente ha rotto i coglioni) qua si tratta del rumore del pane secco sulla grattugia, del borbottio del sugo alle 10 del mattino, di lenzuola stirate e favole della buonanotte, di capanne costruite tra due sedie, di cene estive su un balcone, di insalate con la cipolla e di pasta al forno ingurgitata dopo il mare. Una comoda infanzia vissuta come unigenito del primogenito, quanti privilegi!
Tutto questo per dire cosa?
Boh. Sono i pensieri che mi invadevano nei giorni di permanenza di mio padre qui a Toronto.
Non so bene con quali aspettative mio padre sia arrivato oltreoceano e sono certo non lo sapeva nemmeno lui. La cosa che lo ha spinto a venire è sicuramente l’amore cieco e muto che nutre per il sangue del suo sangue, tutto il resto non ha importanza. A mio padre di vedere Toronto o un pezzetto di Canada non interessava granché, però ci è venuto e io ho insistito perchè venisse, ma Toronto vale come Ladispoli, a mio padre interessava stare un pò con suo figlio e suo nipote (e anche sua nuora và).
Chi se ne fotte – in effetti – di stà città tirata su in mezzo alla foresta 150 anni fa sulle ossa dei nativi? Chi se ne fotte della tranquillità dei quartieri residenziali o dei grattacieli del Financial District? Chi se ne fotte della torre più brutta e alta del mondo? Fanculo, fanculo tutto. Fanculo al lago e le sue isole. Fanculo allo spazio sprecato degli innumerevoli parchi. Fanculo ai musei pieni di cianfrusaglie e paccotiglia. Fanculo ai musi gialli di Chinatown e ai mangiaspaghetti di Little Italy, boriosi selfmademan. E giacchè ci siamo fanculo a tutta l’intera civiltà americana, fanculo brutti grassoni ammazzaindiani. Ecco, mio padre, secondo me, avrebbe potuto fare un discorso del genere e io l’avrei appoggiato, perché c’è sempre un comodo sottil piacere a insultare gratuitamente una diversità ingombrante come quella nordamericana. E’ molto probabile però che mio padre non abbia avuto la lucidità di scoprire quanto lui stesso fosse estraneo a quello che vedeva a Toronto. Infatti ha perseverato – almeno credo – per tutti i 15 giorni a conservare un distacco quasi totale da ogni cosa nuova che incontrava, e non ho ancora capito se per difendersi o per supposto sentimento di superiorità.
Quando ti accorgi che tuo padre non ha nessuna curiosità per un posto nuovo – e ci avresti scommesso una palla – e quando devi badare ad un figlio, alzi le braccia e ti arrendi strategicamente alle esigenze dell’uno e dell’altro.
Colazione, parco, pranzo, nanna, caffè in ghiaccio, ancora parco, cena, burraco, ancora nanna; cacca ad orari fissi – più volte al giorno – per uno, cacca casuale e sporadica per l’altro. Uscire da questo schema comportava una fatica notevole per uno come me che di energie esogene già ne ha poche, rompere la ripetizione liturgica che scandiva ogni giornata comportava spesso scene isteriche per il nipote e colon irritabile per il nonno. Bastava – certe volte – la sola presenza della mamma lavoratrice a rompere l’equilibrio sottile che i tre rizzos avevano duramente costituito durante i loro primi giorni di convivenza. A modo loro, un duenne blaterante, un padre e un nonno muti, atavicamente incapaci di parlare uno con l’altro, stavano insieme. E non facevano niente, eppure facevano tutto, facendo sempre più o meno le stesse cose.
Ecco come lentamente si può imparare la dedizione al ripetersi delle cose: esse non sono mai completamente uguali, si può scoprire che in ogni ripetizione si nasconde una differenza che le dà fondamento. Piuttosto, la ripetizione ritorna sempre come differenza… questo lo sanno bene i bambini, maestri d’abitudini e di rituali, attaccati come cozze a gesti, luoghi, parole, favole e cartoni animati consunti fino all’osso dopo la millesima visione.
Ma come, tuo padre si è smazzato 8000km, 9 ore di aereo, un bel pò di dindini, per fare quasi tutti i giorni le stesse cose? Praticamente sì, o quasi.

Beh vabbè, i giorni di pioggia e i giorni di colite penitente, vanno in pari con la gita alle cascate del Niagara, la gita alle isole, e i giri in città… il resto è differenza e ripetizione.

P.s. da quando mio padre è partito, spazzo a terra tutti i giorni, dopo pranzo, alla stessa ora e penso a mia nonna.

UNDERWEARLESS OBSESSION 2 – ovvero il flusso di coscienza

Molto felice di pubblicare questo contributo estorto al mio amico Scannasurgi, incontrato dopo secoli a NY.

“..e diceva: ti aspetto alla finestra. Tra jet lag, ritardi e valigie perse, mi mancava che quel tremone si fosse addormentato per conorare nel migliore dei modi la fine delle mie due misere settimane di vacanza. Ma avevo ancora davanti a me 48 ore prima del nuovo countdown per le vacanze (di 350 giorni), per questo lungo weekend pieno di sorprese e di voglia di essere ggiovine. Non come ste sguaiate che se ne vanno in giro senza mutande, che dico io mi sembra pure normale che
se di inverno vanno in giro in ciavatte sull neve come minimo d’estate qualcosa in piu se la devono togliere. Per un giusto senso di coerenza con un loro termometro che e’ sempre un casino capire come funziona. menoventottopoidividicircaperdue e’ hai i celsius. Un opinione insomma. Ma io di opinione ne ho una valigia piena, non come quella che la British Airwaysoresa m’ha perso in qualche piscina truzza del New Jersey. E si. Che pian piano che sei qui, in questa terra gentile e tremenda, sara’ per compensare la carenza di pane con la crosta e di
uno stramaledettissimo posto dove puoi trovare un espresso in tazzina e cucchiaino di metallo (di metallo! per gli antichi dei!), insomma si.. devi in qualche modo evidenziare tutte le caratteristiche che sono insulse e infantili, ma che cmq funzionano meglio che dell’italia di Berluscomonti, ne.. e se non te ne vai subito, e ritorni al torpore emicranico del non-so-come-fare-ad-arrivare-a-fine mese italiano, rischi per difendere le stellestriscie e fregartene dei paesi che non
vogliono la tua democrazia e degli orsi polari che non possono piu sentirsi mimetici se non su una confezione di caramelle. Poi ti ritrovi tra 40 anni, foto di Santa Maria Maggiore nella living room, la rucola salentina nel backyard, a non sapere cos’e’ che ti manca di piu’.

Ok. Parlo io. Che a te non ti capiscono, dici. Se. Come se a me
leggessero in fronte quello che voglio dire. Caro amico, qui
l’importante e’ sorridere e se non capisci qualcosa di seeempre di no, mai di si! consi non rischi di tornartene a casa con roba che non hai mai voluto. E se non sai cos’e’ quella cosa nel menu, provala. Di sicuro non ti uccidera’ piu velocemente del resto che potresti sapere gia’. E non aver paura delle strade scure di Harlem. Per loro sei curioso come una giraffa a piazza sant’oronzo. Di certo nessuno vorrebbe sgozzare una giraffa a Piazza Sant’oronzo. Probabilmente perche’ non sanno a che altezza tagliare. Insomma, qui e’ la stessa cosa. L’americano e’ gentile. Il peggio che puo’ capitare e’ che ti
consideri un mentecatto e non vede l’ora che tu ti leva dai piedi. Sii diretto, condividi la loro gentilezza e forse scherzeranno con te.
Guarda quell’idrante aperto. I poliziotti sono gia’ arrivati. Ci siamo persi la scena dei bambini che ci giocano davanti. E un gavettone l’avrei apprezzato stasera…”